I capitoli tra il doge di Venezia Pietro Gradenigo e l’imperatore Enrico VII (1310)

Enrico VII di Lussemburgo nell’ottobre 1310 scese in Italia per ricevere la corona del Sacro Romano Impero, confermò le città ghibelline, combatté Firenze e i guelfi, ma finì i suoi giorni il 24 agosto 1313 a Buonconvento di Siena, rimpianto dai fedelissimi come la più bella e perduta delle occasioni.
A lui infatti erano stati demandati la difesa di antichi privilegi, di commerci e di futuri guadagni e onori delle città amiche. Non ebbe successo e, come poetò Cino daPistoia – “L’alta virtù, che si ritrasse al cielo | Poi che perdè Saturno il suo bel regno | E venne sotto Giove ...”, – con lui finì per molti la metaforica età dell’oro, della pace e della prosperità e giunse quella dell’argento, più decadente e faticosa.
Le vicende singolari di Enrico sono state narrate dai cronisti del seguito e da storici insigni che hanno messo insieme i documenti e scritto libri. Solo pochi fatti sono rimasti ai margini delle più accurate narrazioni, forse perché in fin dei conti meno importanti di altri. Un esempio sono quelli contenuti in una pergamena del luglio 1310 riguardante Enrico VII e la ghibellina repubblica di Venezia – occasione oggi di scoprire come ‘funzionava’ la diplomazia imperiale.
La città della Laguna e il suo “dux” o doge Pietro Gradenigo infatti dimostrarono nei riguardi della notizia della discesa di Enrico cautela e finezza, necessarie anche perché entrambi erano in difficoltà con i loro nemici: nell’agosto 1309 erano stati sconfitti a Ferrara dalle truppe pontificie – con due scomuniche annesse – e nel giugno-luglio 1310 avevano fronteggiato la rivolta di diversi congiurati, e l’avevano sedata con provvedimenti duri e radicali.
Nel far scrivere la pergamena pertanto il doge si premurò di mostrare disponibilità e apertura per l’avvenimento del quale si parlava ovunque, rispondendo dal palazzo Ducale a delle interrogazioni tutto sommato abbastanza ‘standard’, proposte dai nobili ambasciatori inviati da Enrico in Italia.
Li citò proprio all’inizio dello scritto: gli onorevoli Gerardo [von Bevar] vescovo di Costanza, Sifrido [von Geilnhausen] vescovo di Coira in Svizzera (Chur), il cavaliere Ugolino da Vicchio e Enrico di Ralvengo di Asti, erano stati i nunzi del serenissimo “domini” (signor) Enrico re e imperatore dei romani. E al loro messaggio replicò a nome suo e del comune di Venezia con sei “capitoli”.
Nel primo, il cui oggetto era la venuta dello stesso signor imperatore, “infra festum” di San Michele prossimo venturo (29 settembre), il doge e il Comune di Venezia, vollero che si sapesse che ne avevano la massima consolazione e che fosse nota a Enrico la loro felicità per la sua imperiale magnificenza.
Nel secondo capitolo comunicò che gli piaceva ricevere Enrico come re e come imperatore dei romani e che quindi “parati erunt” (sarebbero stati pronti) a riceverlo come re e imperatore dei romani “dignissimum” (cioè con la solennità dovuta).
Nel terzo e quarto capitolo fece scrivere, riguardo ai propri inviati e sulla “gente armata et transmittenda”, che avrebbe mandato sindaci, ambasciatori e procuratori come conveniva e, se la venuta di Enrico fosse stata per mare, in tal caso, sarebbe stato lieto di preparare e dare gente sua per mare (dei marinai) a suo onore e magnificenza.
Nel quinto capitolo, che riguardava la richiesta alle città di far pace o tregua fino alla festa di Ognissanti (il I novembre), Gradenigo rispose che nessuna città era in guerra contro Venezia, salvo il sommo pontefice che “exhibeat se discordem” (per la guerra di Ferrara); comunque, era certo che ciò fosse pervenuto all’attenzione imperiale; sperava quindi che a breve la pace avesse buon fine e dichiarava che egli stesso e il comune di Venezia avrebbero consultato e si sarebbero rimessi al favore imperiale e che, devoti, auspicavano di trovare tale favore “propitium et benignum”.
Nel sesto capitolo il doge ricordò la prestazione in servizi e in uomini che il comune o le singole persone erano tenuti a corrispondere all'imperatore (secondo gli antichi usi medievali di sudditanza, come per esempio il ‘fodro’), dichiarando che, in caso di richiesta, erano pronti a esibire e dare tutto ciò che si fosse potuto, come era giusto e dovuto.
“Postremo” (infine) il doge e il comune di Venezia comunicarono di portare onore e riverenza al signor imperatore e umilmente commendarono se stessi e lo stato alla sua clemenza.

Enrico di Lussemburgo non transitò da Venezia, ma rivolse la sua considerazione e l’esercito a favore di altre due città marinare italiane: Genova e soprattutto Pisa, che gli corrispose ingenti somme di denaro preoccupata per la minaccia ai propri commerci in Sardegna da parte degli aragonesi finanziati da Firenze e Lucca.
La sua precoce morte a Buonconvento, come detto sopra, ridimensionò ampiamente questa ed altre aspettative.

Paola Ircani Menichini, 9 marzo 2023.
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